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Dunque, recentemente ho letto alcuni libri:

Il corpo umano di Paolo Giordano. Giordano per me viene ingiustamente criticato. Per quanto la sua scrittura non lo elevi a livelli altissimi, mi sembra che molte critiche ai suoi libri siano più un conformarsi all’opinione esistente su di lui. Fra gli scrittori italiani che cercano di coniugare contenuto e fama, non è certo il peggiore. Sicuramente non è peggio della Mazzantini o dell’ultimo Ammaniti. Il libro mi è piaciuto, ma non tantissimo. Non credo che abbia giovato questa impostazione a più voci del racconto che ha come conseguenza il dover tratteggiare i personaggi solo con schegge del loro passato, per quanto significative possano essere. Non lo trovo uno stile idoneo alla scrittura intimista dei suoi libri, perché in fondo ti sembra che manchi di quel quid che da compimento al romanzo. Alcuni risvolti mi sono parsi un po’ scontanti. Comunque l’autore deve aver avuto un rapporto conflittuale coi propri genitori.

 

The power of Habits :un po’ self-help ma bello.

 

Thinking: Fast and slow di Daniel Kahneman. Se vi piace la psicologia applicata ad altre discipline, è sicuramente un libro da prendere in considerazione. L’oggetto del libro sono una serie di deformazioni del pensiero, che ogni persona produce a livello inconscio decine di volte nell’arco di una giornata. Aiutano a capire meglio certi atteggiamenti e reazioni e suppongo possano servire come chiavi per capire gli errori commessi. Sono anche la basa di quella che si chiama “economia comportamentale” filone di studi recente, che va in antitesi rispetto per esempio agli assunti del pensiero liberale puro. Non a caso esistono vari punti di disaccordo fra gli studiosi delle due discipline. Io personalmente parteggio più per l’economia comportamentale, anche se non è molto affrontata in ambito universitario, perché credo rappresenti meglio diversi sottoambiti della materia, e sia più proficua anche a livello di implementazione di politiche economiche. A prescindere dal discorso economico, rimane un testo molto interessante per come affronta il pensiero umano a 360 gradi e per come non abbia un approccio discorsivo, ma si avvalga di test statistici e neurologici per suffragare le proprie tesi.

 

Solar di McEwan. Mi è sembrato inferiore ad altri romanzi dell’autore. E’ scritto bene, come al solito, ed in più ha uno stile un po’ beffardo che unito a varie situazioni comiche mi ha strappato più di una risata. Però è carente sotto altri aspetti. Alla fine forse l’autore voleva mostrare le banalità e l’imperfezione umana tramite una persona che dovrebbe invece essere eccezionale.

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Di McEwan ho letto Fist Love, Last Rites.

 

E in qualche modo seppi che mi bastava. Non per dispregiare. Ma perché in qualche modo sentivo di aver inteso la trama interiore dell'autore.

 

ho poi 'visto' Enduring Love e Atonement. L'impressione si è confermata, seppur per interposte persone.

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  • 2 weeks later...
  • 2 weeks later...

Ho terminato la lettura del libro di Prandoni. Verrebbe da dire che mai contenuto più nobile fu rinchiuso in confezione più trista. In una grafica degna di Japan Magazine, ben sotto lo standard delle più mediocri fanzine novantine, il testo è -in una parola- prezioso. Prezioso per il neofita come per il navigato conoscitore del genere, purché l'uno o l'altro siano genuinamente appassionati e interessati alla materia. E' dunque un testo perfetto anche nel suo implicito filtro di lettura. Il cattedratico lo troverà estemporaneo, il nostalgico lo troverà insignificante, il superficiale lo troverà noioso. Per i pochi rimasti da queste esclusioni, gli unici che mi piace considerare, è una lettura pressoché imprescindibile.

Modificato da Shito
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  • 4 weeks later...

La terrra del rimorso, di Ernesto De Martino. Dopo il bel favore che shito ci ha fatto lasciandoci le sue considerazioni sul libro di Azuka, contraccambio con queste righe che mi trovo sul pc da tempo. (sono mie, sono ben formattate perché dovevo consegnarle a un prof)

 

 

Ernesto De Martino – La Terra Del Rimorso

“È la gente tanto assuefatta al male, sono tanto licenziosi, superbi, senza giustizia et governo come se fussero tutti del bosco. Delli preti non voglio cominciare: basterà che a bocca potremo dare occasione ai nostri fratelli di venire in questa India”

Giovanni Xavier, Cosenza, 22 agosto 1561[1]

Se Cristo Si è Fermato A Eboli è stato dei tre libri quello il cui ricordo è più fascinoso e dolce, La Terra Del Rimorso di De Martino è indubbiamente quello che ci ha edotto di più sulla natura umana. Il libro di De Martino – come dice il suo stesso sottotitolo – vuole essere un “contributo alla storia religiosa del Sud” ma nel fare ciò la sua indagine antropologica – cosi come indicato da Levi-Strauss in Tristi Tropici, da De Martino esplicitamente richiamato – indaga anche sulla natura umana universale, nella misura in cui in ogni società umana si possono rintracciare le caratteristiche di quell’uomo primitivo/base sul quale sono stati edificati i vari abiti sociali.

Questa indagine parte da una ricerca sul mito del morso della taranta e della danza terapeutica ad esso associata, la famosa tarantella. La diffusione della danza – privata ormai della sua origine curativa – è lampante si che è conosciuta in tutte le terre d’Italia; i più vicini al Sud – cosi come lo scrivent– hanno anche potuto sentire l’espressione, nel caso di uno stato di agitazione e/o irrequietezza: “che t’ha morso la tarantola !?!”

L’intento del libro è usare il noto fenomeno del tarantismo, la sua particolare e piccola storia, per indagare più generalmente sulla storia religiosa del Sud, fatta di contraddizioni e compenetrazioni con una cultura alta imposta e mai definitivamente penetrata.[2]

Per fare ciò De Martino doveva innanzitutto sincerarsi dell’origine religiosa del Tarantismo. Come infatti ha ampiamente documentato nella terza parte del suo libro, fin da quando furono condotti i primi studi a riguardo[3] – pur essendo spesso validata l’efficacia della iatromusica – non si nutrirono dubbi sul morso del ragno come causa scatenante e solo Francesco Serao, illustre medico napoletano, s’avvicinò alla verità nel 1700[4], dopodiché la questione fu riannegata nel campo della medicina dal positivismo ottocentesco. Per eliminare con certezza le ipotesi naturalistiche De Martino si avvalse nel suo viaggio di un equipe composta anche di uno psichiatria ( Giovanni Jervis ) e di una psicologa ( Letizia Jervis-Comba ) e raccolse vari dati storici nei nosocomi della zona e non.

L’immensità di dati raccolti da De Martino sulla questione non è qui il caso di enumerare, vogliamo però citare i punti chiave che portarono dall’osservazione di alcuni tarantati presi in esame[5] e dei dati storici a stabilire che la taranta non fosse un fenomeno fisico:

1.      L’immunità locale. Il fenomeno del tarantismo era sviluppato, al tempo della visita di De Martino, per lo più intorno al paese di Galatina, in cui era posta la cappella di San Paolo, il quale era stato associato al fenomeno del tarantismo come santo protettore e curatore dei tarantati – probabilmente per una spinta clericale atta a condurre il fenomeno sotto l’egida della chiesa. I dati ci informano che sebbene la zona fosse esposta al rischio di morsi della tarantola quanto le circostanti a Galatina tarantati non ce neerano perché – sostenevano i pugliesi – San Paolo proteggeva il paese e il suo territorio come fosse il suo feudo.

2.       Le crisi di tarantismo erano periodiche, in particolare scoppiavano per lo più in prossimità della festa dei Santi Pietro e Paolo cosi che i tarantati dopo aver fatto un primo esorcismo musicale in casa ne facevano un secondo nella chiesa dei due santi a Galatina.[6]

3.      Netta prevalenza femminile tra i tarantati, in forte contrasto con i dati che vogliono i maschi più esposti al morso della tarantola che avviene col lavoro dei campi. Tale dato è rafforzato, nell’ottica di smentire l’origine fisica del tarantismo pugliese, dal fatto che in altre parti di Italia i tarantati – cosi come vogliono le probabilità – siano in netta prevalenza maschile.

4.      Gli affetti da tarantismo, ha potuto notare De Martino, tendono a ricorrere nella stessa famiglia. L’unica spiegazione plausibile è attribuire l’attarantamento non al morso della tarantola ma a cause culturali che in una famiglia piuttosto che in un’altra possono essere maggiormente accentuate

5.      Età del primo morso. Nella maggior parte dei casi l’età del primo morso è la pubertà, associata con il fatto che, come vedremo meglio dopo, le frustrazioni dei tarantati si polarizzano intorno alla sfera sessuale e a una gloria non conseguita, ciò non è che l’ennesima prova dell’origine culturale del tarantismo

6.      L’eterogeneità della tarantola responsabile del morso. La sua immagine è infatti un incrocio tra la lycosa tarantula – di grosse dimensioni e con un morso doloroso nell’immediato ma pel resto innocuo – e il latrodectus tredecim guttatus, di dimensioni piccole ma il cui morso è l’unico che potrebbe dare effetti simili a quelli dei tarantati, sebbene chiaramente solo nell’immediato e non ricorrenti annualmente/periodicamente.[7] Tale confusione sul ragno responsabile e in definitiva il suo essere una figura mitologica nata dall’incrocio di più specie piuttosto che un ragno reale danno il colpo di grazia definitivo alla spiegazione medica.

Una volta che De Martino era riuscito a raccogliere i dati sufficienti per l’enunciazione dei sei punti di sopra, poteva ormai ritenersi soddisfatto per quanto riguardava lo screditare l’origine naturalistica del tarantismo. Era indubbio che il tarantismo fosse un fenomeno culturale, il resto della sua indagine poteva ben concentrarsi sulle affinità culturali che presentavano i vari casi di tarantismo al fine di averne finalmente una giusta comprensione eziologica.

Ciò che emerse prima di tutto dai dati storici fu che il tarantismo era esclusivo della plebe almeno fin dall’inizio del XIX secolo e che anche in precedenza i casi tra le classi agiate erano sempre più sparuti man mano che si risaliva la piramide sociale. De Martino a riguardo – cosi come in altre occasioni - non trae esplicite conclusioni, lasciando che l’evidenza luminosa dei fatti parli da sé. Ciò che svelano tali dati è di importanza fondamentale: il tarantismo nasce evidentemente da una certa condizione di forte disagio sociale o in ultimo di intensa frustrazione rispetto all’esistenza, casomai sentita come precaria, che si può riscontrare nel XIX e nel XX secolo solo nelle fasce più basse della popolazione ma che in passato – lontano il progresso dal raggiungere l’incivilimento moderno – poteva affliggere anche classi più elevate.

Questo fa ben luce su uno degli aspetti fondamentali del fenomeno: una sorta di crisi della presenza – intesa come attività culturalizzante con la quale l’uomo canalizza in forme accettabili socialmente il suo vitalismo – è ciò che caratterizza i tarantati. In quest’ottica, nell’ottica del concetto di presenza, che però De Martino usa per lo più in un altro suo testo, Morte E Pianto Rituale Nel Mondo Antico, la tarantella, le esplorazioni musicali e tutte le usanze proprie del fenomeno del tarantismo possono esser visti come l’estremo appiglio della presenza per recuperare una persona talmente turbata da esser uscita dal campo del vitalismo formalizzato quasi definitivamente.

Tale deduzione ci pare oltremodo giusta e il miglior modo di interpretare il tarantismo, alla luce degli studi demartiniani e non. Tuttavia ci torneremo in finale di capitolo, vediamo ora ciò che il nostro ha rilevato essere le cause scatenanti dell’attarantamento, il che permetterà la quadratura del cerchio.

Se in generale la condizione degli attarantati era caratterizzata da una precarietà e disagevolezza di vita, andando nello specifico, tramite l’analisi dei tarantati presi in esame, De Martino poté notare che la vita della maggior parte di essi, oltre a essere segnata dalle condizioni precarie suddette, presentava spesso un momento particolarmente tragico e destabilizzante in seguito al quale, quasi sempre, il soggetto in questione diceva d’esser stato mosso dalla tarantola e contraeva il tarantismo. L’esempio meglio studiato è quello di Maria Di Nardò – riguardo alla quale nel libro è fornita anche un’ampia documentazione fotografica della sua danza terapeutica – che si attarantò in seguito alla rinuncia a un matrimonio d’amore – troppo modeste erano le sue origini per lo sposo – e al vincolamento in un matrimonio non voluto. L’attarantamento anche negli altri casi è sempre dovuto a una situazione molto frustrante e che casomai viene portata al punto critico da un ennesimo evento destabilizzante. Il corso del fenomeno a quel punto è all’incirca uniforme: crisi di attarantamento all’incirca una volta l’anno di estate – ma talvolta anche più … - che vengono puntualmente “curate” tramite la danza terapeutica e tutti i suoi riti. Tutto ciò delinea fin troppo chiaramente la natura del rimorso della tarantola, in cui un cattivo passato torna a rimordere esigendo pegno.

L’analisi delle danze terapeutiche, della loro efficacia, cosi come della loro particolare periodicità contribuiscono a fugare ogni residuo di dubbio sull’essenza del tarantismo, convalidando l’ipotesi da noi sopra ben esplicitata – da De Martino nel libro lasciata per lo più intuire – che l’attarantamento fosse il punto di non ritorno di una crisi della presenza e che la terapia coreutica fosse l’atto d’estremo recupero che la cultura faceva sulla vitalità incontrollata, perlatro non sempre funzionante come dimostrano alcuni casi.[8] Dato che non ci è possibile un’analisi accurata vorremo soffermarci almeno su i due punti tra questi che riteniamo di maggior rilievo: la periodicità della danza e il grande sforzo economico che essa comportava per la famiglia del tarantato, al fine di metter meglio in luce come il fenomeno del tarantismo fosse l’estremo – e esoso – rifugio di esistenze sul punto di essere travolte dal fiume del vitalismo incontrollato.

Innanzitutto la grande diffusione del tarantismo fece si che già nei secoli passati alcuni – poco a conoscenza della situazione pugliese ma abbastanza smaliziati da non farsi prender nel sacco dalla riduzione medica – parlassero del tarantismo come un modo in cui il popolo pugliese, solo tra tutti, poteva beatamente permettersi di darsi ai più strampalati capricci. Un’ipotesi questa che se per un verso è molto attraente, nella misura in cui coglie certamente alcuni aspetti del tarantismo, è per un altro estremamente fuorviante perché dimentica del tutto la drammaticità dell’esistenza dell’attarantato, che lo porta alle eruzioni di vitalismo che costituiscono le crisi di tarantismo al fine di bilanciare un’esistenza per il resto repressa e frustrata. La particolare periodicità degli attarantamenti fa ancora più luce in questa direzione. . Le danze e dunque le crisi di tarantismo avvenivano infatti per lo più al tempo della mietitura, un periodo, suggerisce De Martino, in cui il contadino aveva occasione di pagare i debiti economici accumulati e che probabilmente designava inconsciamente anche come momento per pagare i debiti contratti con l’animo in un’esistenza di frustrazioni.

Dato questo quadro possiamo finalmente spiegare cosa sia il Sud Terra Del Rimorso che dà il titolo al libro. La Terra Del Rimorso è quella terra in cui si pratica la particolare religione del rimorso tramite il mito della tarantola. E questo rimorso è un cattivo passato, che torna a tormentare i poveri contadini pugliesi con la confusa coscienza di una vita mal vissuta, innescando un blocco o meglio una frattura nella vita psichica che non può mai essere superato ma, al meglio, solo confinato in particolari momenti dell’anno.[9]

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L’approccio di De Martino al tarantismo costituisce un modo completamento nuovo, rispetto a quello che abbiamo potuto osservare in Cristo Si è Fermato A Eboli di Levi, di incontro con il diverso. La causa di questo è a nostro parere in primo luogo nelle diverse circostanze in cui tale incontro si ebbe: Levi restò confinato a Gagliano per circa un anno, isolato dal mondo e a stretto contatto coi contadini si che le loro usanze gli entrarono nel sangue; De Martino condusse un’attenta ricerca ma della durata di circa un mese e ben in contatto, tutto sommato, col resto della civiltà. In secondo luogo cambia anche la predisposizione con la quale i due vennero in contatto con la civiltà meridionale: se Levi infatti si apri a ogni suo influsso, riuscendo a sentire le verità sensuali e animalesche insite in quelle usanze primitive, l’accostamento di De Martino fu fin dall’inizio caratterizzato dal piglio dello studioso, riassumibile nella sua regola aurea: “ [ Nei viaggi nelle terre altre ] noi non possiamo mettere in causa il risultato fondamentale dell’Umanesimo di cui siamo, volenti o meno gli eredi: cioè la coscienza dell’origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali, anche di quelli – anzi soprattutto di quelli – che includono in un modo o nell’altro il pensiero di un’origine o di una destinazione metastorica, extramondana, divina della cultura.”[10]Che, per carità, è un approccio estremamente fruttuoso e che in definitiva non si oppone ad una parziale empatia colle popolazione osservate ma che, nel momento in cui filtra le usanze di queste tentando di capirle razionalmente, si allontana dal penetrarne in un certo senso i sentimenti, il che si traduce in ultimo in una immersione culturale nel diverso di minor violenza, anche se senza dubbio più proficua dal punto di vista della chiara conoscenza.


[1] Ernesto De Martino, La Terra Del Rimorso, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 43

[2] De Martino è indubbiamente uno degli ultimi a poter parlare di un Sud rimasto impermeabile o quasi, nei suoi strati più poveri, agli influssi culturali che attraversavano la penisola. Dopo di lui – dopo questa Terra Del Rimorso scritta nel 1961 – la diffusione capillare della televisione prima e di internet poi trarrà fuori anche il più piccolo paesino dall’isolamento culturale, omogeneizzando quella diversità che fece chiamare la Puglia l’India Nostra da alcuni missionari del ‘500 (  v. nota precedente ).

[3] Il Sertum Papale De Venenis, che parlava del tarantismo e delle esplorazioni musicali usate già da allora per guarire il morso della taranta. È da notare che nel testo non si fa parola della localizzazione geografica di tale fenomeno, probabilmente perché la si dava per scontante ( Cfr. Ib. p.  255 )

[4] Il Serao acutamente scorgeva che “la causa della malattia non era da ricercarsi nella tarantola ma nei pugliesi, e che animali e malattie diverse entravano nella questione in obliquo, mentre i Pugliesi vi entravano in recto” ( Ib. p. 278 )

[5] Quali soggetti considerare come tarantati e pertanto esaminare fu uno dei primi problemi che si pose all’equipe di De Martino. Per non fare discriminazioni pregiudizievoli che avrebbero inficiato la correttezza dell’analisi, l’equipe decise di prendere come tarantati 19 dei 35 che nell’estate del 1959 si presentarono, tra il 28 e il 30 giugno alla cappella di San Pietro e Paolo per la celebrazione della cura  in cappella della taranta. A questi ne furono poi aggiunte altri due da tempo ricoverati in ospedale, per uno dei quali l’attarantamento era stato realmente innescato dal morso del latrodectus tredecim guttatus( Cfr. Ib, pp. 63-64 ).

[6] Al tempo della visita di De Martino la musica era stata però vietata all’interno della chiesa. ….

[7] Del latrodectus tuttavia, nell’elaborazione della mitica taranta, era stata mantenuta anche la capacità di muoversi lunghe le fila della sua tela trasportato dal vento, caratteristica evidente di un ragno di piccolissime dimensioni e stazza che però nella mitologia popolare si riusciva a far combaciare col tozzo corpo della lycosa tarentula.

[8] È esemplare il caso di Michele di Nardò e Giorgio di Galatone ( Ib. pp. 102-109 ) per i quali le danze terapeutiche furono vane, essendo probabilmente tanto opprimente il senso di frustrazione che permeava la loro esistenza da non poter essere allontanato dai momenti di sfogo delle tarante, per quanto intensi e prolungati questi fossero.

[9] È emblematico il caso di quella attarantata che, non potendo più danzare, stava male tutto l’anno non potendo più svolgersi l’azione di contenimento e canalizzazione del rimorso proprio del tarantismo. Cfr.: “Giovanna ci riferì che quando le era consentito di ballare la crisi si scaricava nel ballo: fuori dalla stagione critica stava bene e ingrassava. Invece da quando il ballo le era stato proibito [ dai carabinieri per ordine dell’ufficiale sanitario, evidentemente erroneamente convinto che tale pratica fosse più dannosa che altro ] continuava a star male per tutto l’anno, malgrado gli estratti epatici e le iniezioni di clacio che i medici le avevano prescritto.” Ib. p. 120

[10] Ib. p. 42

Modificato da Kin
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Ah sul libro che leggi, l'autore mi sembra un emerito imbecille. Lascia perdere gli scienzati, come filosofi raramente valgono qualcosa.

 

 

Di preciso, per quale opinione espressa nei 2 libri a cui mi sono riferito reputi Hofstadter un "emerito imbecille"?

Cioè il tuo commento era solo un generico rutto del tuo pensiero o l'inizio di una critica puntuale? 

 

In generale se non si sà esattamente quello che si dice/scrive sarebbe meglio restare anche un po' in silenzio, che di sti tempi non fa male.

Ma questo non è probabilmente il tuo caso.

 

Mi riferivo a Hofstadter in generale, cmq visto che insisti provo a chiudere la discussione sull'altro topic. Ti aspetto li, ho intenzione di proseguire pacatamente fino alla fine. E credo sarò lungo. Sorvoliamo dunque per ora su hofstadter

Modificato da Kin
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Il primo è in una raccolta di racconti? Forse intitolata proprio 'Tokyo Decadance'?

 

Se sì, la lessi anch'io.

 

In effetti Murakami Ryuu ha i suoi perché, e capisco perché Anno lo adori. La sensazione è che Murakami Ryuu faccia sempre emergere il sottotesto di 'vuoto interiore' dei suoi personaggi, delle società che racconta. Credo anche anche "In the Miso Soup" sia così, ma non l'ho letto (e non programmo di farlo, in verità). Però mi piacerebbe leggere, dell'autore, "Blu Quasi Trasparente" (introvabile, in italiano) e "Il fascismo dell'amore e dell'illusione" (mai tradotto, credo). Oltre a Topaz II, anche.

Credo che "Blu Quasi Trasparente" fu una delle mie prime letture giapponesi. All'epoca lo apprezzai per la leggerezza con cui mostra una giovinezza allo sbando(se scrivo puttanate, perdonatemi, sono secoli che non lo leggo).

 

Poi arrivò Prandoni e melo demolì(più che altro demolì un certo modo di fare critica in Italia).

 

Ad esempio, e qui si parla del film, Siciliano scrive:"Insomma questo piccolo scheletro drammaturgico, di nessuna originalità, serve solo ad allineare fotogrammi di sesso lacrimevole e stucchevole".

 

Di suo Prandoni scrive invece:"Tokyo Decadence-Topaz risulta essere una pellicola elegantee alla moda(da notare la birra Corona nealla stanza di Saki),con ambientazione costose e di alta classe. E, soprattutto, è un prodotto mirato ad un pubblico femminile annoiato, insoddisfatto, alla costante ricerca di "qualcosa" ma anestitizzato e desideroso di eccessi non coinvolgenti".

 

Ma Prandoni se la prende pure con Murakami scrittore che alla domanda:"Qual'è il luogo del Giappone che preferisce?", il presunto critico tagliente risponde:"I grattacieli di Shinjuko Ovest, così alti epieni di luci sono bellissimi".

 

All'epoca dell'uscita del film gestiva inoltre una rubrica su AN AN(rivista su tutto ciò che le ragazze devono fare per essere trendy).

 

Stando ad AN AN il nostro frequenta solo bar di lusso, e quando gli viene chiesto il suo momento di maggior imbarazzo, rievoca l'episodio nel quale, viene invitato in un ristorante francese d'alta classe, si presentò in giubbotto e jeans ("a quell'epoca non possedevo ancora un completo") e venne severamente sgridato.

 

Sarà per questo che dopo avere apprezzato Blu quasi trasparente, mi disinteressai dell'autore per anni e leggendo(e vedendo Topaz) e Tokyo Soup sono rimasto alquanto indifferente?

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Che bello rileggerti, Kobayashi. In tutti i sensi (e triplo gioco -nel senso del baseball- col titolo del topic).

 

^^

 

BTW, sia per 'Blu quasu trasparente', che per 'Perfect Blue', io avevo sempre inteso Blue = Aoi = acerbità. Un'adolescente (con l'apostrofo) ancora acerba in giapponese è 'mada aoi' (ancora blu), ovvero 'ancora verde'. Coloro che pensando a Lolita pensano a un letterato russo che scrive in americano ricorderanno come il suo protagonista si definisse un 'amante del fruit vert'. Le Mele Verdi erano giovincelle anche per noi, no? Ecco, io ho sempre inteso quei 'blu' così. E ci avete mai pensato? Aoi sakana anche noi lo chiamiamo sia pesce verde, che pesce azzurro. :-)

Modificato da Shito
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  • 3 weeks later...
  • 2 weeks later...
  • 2 months later...

Ho finito Il Piccolo Popolo dei Grandi Magazzini di Terry Pratchett (da poco ristampato da Salani), da antologia i versetti dal libro dei Niomi... :giggle:

E Due Tombe di Douglas Preston & Lincoln Child, ultimo atto della seconda  trilogia sulla famiglia dell'Agente Pendergast! :°_°:

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  • 5 months later...
  • 2 months later...

Una segnalazione autentica, in questi giorni ho finito di leggermi il volume catalogo " Le Vie del Sacro" di Kazuyoshi Nomachi opera davvero bella che riprende la mostra - omonima in corso a Roma - uscito con il numero di National Geographic di inizio gennaio ( insieme costano un 13 euro ma li valgono tutti ), la mostra è la prima dedicata  a questo fotografo documentarista giapponese che negli ultimi 40 anni ha percorso - e stà percorrendo - i continenti, dalle sabbie del Sahara fino alle Chiese di Etiopia, alla Mecca, al mondo del Tibet, attraversando l'India,ai segreti delle popolazioni delle Ande, in cui il Cristianesimo si è mescolato in forme nuovissime alle religioni ancestrali, in una ricerca dell'uomo e della Natura in cui l'uomo vive. Il catalogo non è nulla di che, ma per chi non ha la possibilità di vedere la mostra, è un'occasione per conoscere un personaggio ed un'opera di grande suggestione.

 

Guardatevi un pò il video.

 

La mostra è la più grande personale dedicata a Nomachi e la prima che sia stata realizzata in Occidente, con oltre 200 foto, disposte su grandi pannelli, un percorso espositivo articolato in 7 sezioni, proprio come il catalogo.aperto da un'introduzione /Intervista di Marina Conti al fotografo dove Nomachi spiega cosa l'abbia guidato nella sua opera, non la mera recherche dello scatto straordinario ma l'entrare in queste società, marginalizzate eppure a noi tutti ( e se lo dice un giapponese vi è da riflettere) simili. Un viaggio lungo decenni nel mondo, ed come sottolinea Franco Cattaneo nella breve introduzione, all'interno di se.

 

La mostra le vie del Sacro rimarrà aperta negli spazi della Pelanda, al Macro di Testaccio dal 14 dicembre 2013 – 4 maggio 2014.

 

Alcune immagini sull'Huffinghton Post.

 

http://www.huffingtonpost.it/giuseppe-fantasia/le-vie-del-sacro-di-kazuyoshi-nomachi-in-mostra-a-roma_b_4445640.html

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