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bassho

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Ho finito Culture del Giappone Contemporaneo. In definitiva e' una lettura carina, sebbene discontinua e poco organica. Non mancano alcuni spunti di riflessione interessanti, che purtroppo vengono soltanto accennati. Penso che la parte piu' interessante del libro sia quella in cui il cyber viene messo in relazione con il Wabi-sabi - il libro ha origine proprio da una serie di conferenze denominate Wabi-sabi Cyber, incentrate sul rapporto del postmodernismo giapponese con la tradizione -, con esempi celebri quali GE999, GITS e Alita. Per i neofiti e' un'ottima lettura imho.

 

Adesso ho iniziato Blu quasi infinitamente trasparente, e devo ammettere che mi pare una sorta di Trainspotting alla giapponese (!).

 

BTW, il contesto in cui e' ambientata l'opera e' lo stesso descritto da questo bellissimo libro...

 

9788846100092-it-300.jpg

 

... la cosa che per adesso mi ha colpito di piu' e' la "divinizzazione" degli americani. Sembrano quasi degli esseri superiori che vengono nominati ma non appaiono mai, che invadono tutto con la loro musica - tutti ascoltano sempre i Rolling Stones - e la loro frivolezza. Tipo il professore di The Sky Crawlers, quell'essere che non puo' essere sconfitto e di cui nessuno conosce il vero aspetto, di fronte al quale i "bambini" giapponesi si sentono impotenti e frustrati.

 

Lo stile di scrittura mi piace molto. Semplice, realistico e diretto. Un pugno allo stomaco.

Modificato da AkiraSakura
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Il titolo di quel libro è interessante, ti ringrazio per averlo segnalato. Mi permetterò di indagarlo un po'.

 

Io sono tornato, dopo avere letto un po' di Miyazawa Kenji (è IMPRESSIONANTE quanto di Takahata e Miyazaki venga da lui), su Natusme Souseki, ora in veste di saggista:

 

TV29_cop_Soseki.jpg

 

Il libro prende titolo da un breve saggio di Souseki, essenzialmente la trascrizione di una sua conferenza frontale tenuta presso l'università Gakushuuin (quella di prima della guerra, però), quando lui insegnava alla Waseda.

 

In realtà il testo della conferenza occupa un terzo del libro, forse. La più parte è costituita da un altro saggio di Souseki sui fondamenti filosofici della letteratura, tema a lui molto caro.

 

Leggere Souseki è per me sempre molto piacevole. Da giovane l'avrei forse trovato illuminante.

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A dire il vero secondo me sostanzialmente non ha neanche molto senso citare Miyazaki e Takahata (almeno a livello concettuale), essendo loro due più affini allo shinto che al buddhismo (la religione di prediletta di Miyazawa).

 

BTW, gli adattamenti animati delle opere di Miyazawa creati da Sugii Gisaburo sono veramente carini. Tipo il monolitico Ginga Tetsudou no Yoru, un film veramente giapponesissimo, lento e pesante come pochi.

Modificato da AkiraSakura
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A dire il vero secondo me sostanzialmente non ha neanche molto senso citare Miyazaki e Takahata (almeno a livello concettuale), essendo loro due più affini allo shinto che al buddhismo (la religione di prediletta di Miyazawa).

 

Takahata ha proprio DICHIARATO la grande influenza che Miyazawa Kenji ha sortito su di lui, e l'ha argomentata.

 

Davvero non ci si può fermare a "eeeeh, shinto e buddhismo", è una lettura delle cose troppo formale, aprorioristica, indi superficiale.

 

Parlando di Takahata, lui ha detto che il modo di vita di Miyazawa Kenji, il suo modo di 'vivere la vita gioiosamente in ogni atto', è la cosa che più l'ha influenzato. Non so neppure se definire Takahata come "shinto" tout cour, dato che lui mi sembra fare una grande, grande apologia del ciclo della metempsicosi... senza credere alla metempsicosi. E' davvero "anomalo", ma mi sento di comprenderlo molto.

 

Inutile rimarcare poi una forte vicinanza nell'interesse naturalistico in quanto agrario.

 

Quanto a Miyazaki, invece, beh... ovviamente anche lui cita Miyazawa di continuo. Il primo punto è: il favolismo. La narrativa per l'infanzia. Se pensiamo a corti come "MonMon il Ragno d'Acqua", subito vengono alla mente visioni 'interne' al mondo dei piccoli animali come "La pera selvatica".

Modificato da Shito
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Ho finito Blu quasi infinitamente trasparente. Grazie mille per avermelo consigliato, mi e' piaciuto molto. :)

 

Confermo le mie impressioni iniziali: e' una sorta di Trainspotting giapponese in cui si sente il vuoto interiore dei figli della grande bolla (cit.) Ho molto aprezzato come il finale si sia riallacciato al titolo del libro, assumendo una valenza simbolica molto potente. Anche gli scleri del protagonista sulla sofferenza sono molto potenti, Tsukamoto Shinya li aprezzerebbe senz'altro. XD

 

Adesso ho iniziato questo...

 

theartofemotion_rumormario.jpg

 

... e' scritto molto meglio e con piu' perizia di "Come Bambole". L'autore stavolta si e' impegnato parecchio, inserendo retroscena e foto interessanti sul SOMMO Isao.

Modificato da AkiraSakura
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Io non so se ho apprezzato Blu Quasi Infinitamente Trasparente, dico come letteratura. Credo di averlo trovato "per certi versi interessante", ma solo questo.

 

Venendo da Souseki e Akutagawa, vi ho rintracciato una sorta di continuum nel conflittuale rapporto tra il Giappone e la modernità (e poi postmodernità) occidentale.

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A me ha semplicemente confermato in modo più "drammatico" e "grottesco" quello che mi aveva già detto Greenfield. A livello di letteratura l'ho apprezzato sicché sono un patito di questi scritti esistenzialisti che ti sbattono le cose in faccia senza troppi complimenti - Céline per me è un grande.

 

Dalle mie recenti letture emerge cmq la natura "instabile" della postmodernità giapponese, che senz'altro non ha potuto consolidarsi come quella yankee ma è rimasta in qualche modo legata alla tradizione, in quanto "imposta" dal "nemico" impossibile da sconfiggere. Tipo l'ambivalente e inarrivabile Desty Nova con la "mistica" e introversa Gunm, che la distrugge e poi la ricostruisce più forte con la sua scienza super-potente e incomprensibile.

 

Però c'è anche da dire che nel romanzo di Murakami Ryu non c'è alcuna tradizione che si fonde con il postmoderno, l'unico incontro dei "figli dell'americanismo" con le istituzioni è quando la polizia entra in casa loro e li sbeffeggia siccome non hanno una famiglia, non hanno un futuro, non sono integrati nella società. Il loro è un "americanismo" sofferto, simulato, che gli ha svuotati. Il romanzo non propone neanche un incontro del vecchio col nuovo che gli infonda una certa dignità. Tutto finisce nel vuoto, in uno spleen molto più occidentale che giapponese a parer mio.

Modificato da AkiraSakura
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Di mio, invece, ho sempre pensato che l'esistenzialismo sia la rivelazione dell'inettitudine dell'uomo a vivere il proprio tempo.

 

Mi spiego.

 

Il benessere, la ricchezza, portano libertà. Non parlo di menate come l'autodeterminazione dei popoli e blah blah. Intendo l'individuale libertà di godere del proprio tempo mentale. La libertà dell'autocoscienza dalle impellenze primarie, della sopravvivenza. Poiché nel dopoguerra è iniziato a diffondersi il benessere, storicamente molte persone si sono trovate libere, ma non avevano l'educazione mentale -ovvero: la capacità intellettiva reale- a sopravvivere alla propria noia. Quindi, la risposta belluina alla libertà -ovvero alla solitudine ovvero alla noia- non è che la violenza, autolesionistica (droga, stordimenti vari) o esogena (tafferugli sociali più o meno organizzati). Ma è la stessa cosa.

 

Credo del resto che tutto l'intrattenimento, dai giochi all'Anfiteatro Flavio fino a Facebook, in un'unica grande ellissi, altro non sia che una sorta di spugna per assorbire il tempo, ovvero la noia, ovvero la solitudine reali di quelle molte persone che non hanno una dimensione intellettiva e un'educazione al ragionamento sufficienti per sopravvivere alla loro esistenza libera dagli oneri della sopravvivenza reale.

 

Quindi penso che tutto l'esistenzialismo sia banale -in senso italiano, quindi dispregiativo- ovvero sia blanda stolidità. Sono quelle cose che non vale la pena dire, perché o uno le capisce da solo, oppure non potrà capirle, oppure peggio ancora gli faranno danno.

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Penso di aver capito cosa tu voglia dire, e mi sembra abbastanza coerente. Nondimeno, ad esempio, Céline nel suo libro racconta la vuotezza e la banalità sia delle classi indigenti che borghesi. Il vuoto e l'insensatezza - non solo del suo tempo, quello della guerra e del dopoguerra, ma dell'esistenza in generale - colpiscono ogni persona, sia essa intelligente o no. La persona più brillante - in questo caso l'autore del libro - osserva tutto questo dall'esterno prendendo in giro in modo amaro i suoi simili, benestanti o meno, ma comunque gretti e meschini - un po' come lui d'altronde, nessuno si salva -, andando incontro ad una sorta di disperazione lucida, indotta sopratutto da un idealismo tradito nei confronti dell'uomo e del suo rapporto con quello che lo circonda. Pertanto, in sostanza, anche se fai la fame non sei molto diverso da uno che non fa nulla tutto il giorno, che deve sedarsi perché in testa non ha niente. Il problema è che se hai qualcosa in testa, soffri ancora di più perché capisci che... sotto sotto non c'è niente da capire. E che alla natura/universo/società/stato/ecc. della tua intelligenza non interessa molto. XD

 

La "vera sopravvivenza" imho comporta un grado di sedazione non molto diverso da quello di chi sta bene e ha tempo per annoiarsi.
Entrambe le strade portano comunque al nulla.

 

 

Sono quelle cose che non vale la pena dire, perché o uno le capisce da solo, oppure non potrà capirle, oppure peggio ancora gli faranno danno.

 

Ecco. Diciamo che l'esistenzialismo per me è una presa di coscienza della propria condizione. Se faccia o no danno non saprei, dipende dalla persona. Io personalmente dico: ok, è vero. Ma ci si può anche ridere sopra, in fondo non cambia nulla.

Modificato da AkiraSakura
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La sofferenza per la propria insensatezza sottende la pretesa inconscia dell'esistere di una sensatezza, di base, per la propria esistenza o quella della propria specie.

 

Ci sono gradi di nichilismo molto, molto più onesti e radicali.

 

Scevri del tutto anche di quel titanismo napoleonico che serpeggia sempre nel pensiero francese, anche esistenzialista.

 

Se letto bene, Stendhal è più esistenzialista di Céline. Le rouge et le noir diceva già tutto.

 

Moravia, dopo Gli indifferenti e La noia, nel suo molto meno celebre L'attenzione racconta di un borghese romano che va a prendersi in moglie una borgatara, una vera (dico, delle borgate vere, quelle con le catapecchie). Lei, che da ragazza si era sin prostituita con i soldati tedeschi, diverrà poi una ruffiana pronta a prostituire la figlia sotto gli occhi del marito. E gli dirà: "Vedi, tu ti credevi che i poveri erano meglio dei ricchi. Ma no, i poveri fanno schifo come i ricchi, è solo che non ci hanno i soldi."

 

In summa: la miseria umana non ha bisogno di un motivo. Perché il motivo della miseria è l'umanità essa stessa.

 

Ma l'umanità è anche narcisismo. Quindi è l'inganno del sé, sempre e comunque. Questa strada di autoinganno conduce alla distruzione, e credo che così sarà. Non so in che tempi, ma non fa niente, non importa comunque. Anche non essere affatto esistiti non avrebbe cambiato nulla. E non lo dico per atteggiarmi, sarebbe ego e autocompiacimento, cose ancora francesine - ma anche quelle le superai anni e anni or sono (appunto non mi piacque il primo testo di Soseki). Non lo dico neppure con rassegnazione, già che non c'è niente a cui rassegnarci proprio. E' solo la semplice realtà in cui credo di essere venuto a esistere come coscienza. Alla fine anche il Verismo siciliano aveva già espresso, e meglio, tutto l'esistenzialismo del caso.

Modificato da Shito
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A proposito di esistenzialismo, giusto oggi era ad una mostra su Hermann Hesse dalle mie parti, dove veniva citato questo suo brano:

 

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Da biologo sostanzialmente ho sempre pensato la stessa cosa, ovvero che l'evoluzione umana sia tutt'altro che compiuta, che la specie umana sia ancora troppo animale e troppo poco umana, e che quindi si possa e si debba auspicare che essa prima o poi si evolva in qualcosa di meglio (con evoluzione non si intende un miglioramento meramente biologico od un processo necessariamente naturale..).

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Da figlio di biologo batteriologo, è una cosa che ho sempre pensato anch'io. Quello che voglio dire è che Shopenhauer si studia ma si studia molto male. ll suo 'spiritualismo ascetico mistico' di derivazione indiana viene preso come una metafora e nulla più, ma non credo lo fosse. Ci fu un tempo in cui dialogavo con un Maestro Massone di una scuola minore, che avversava il Grande Oriente, e le sue idee erano molto simili - se parliamo di 'evoluzione spirituale' come passo successivo nell'evoluzione umana dopo la conquista dell'autocoscienza. Ovvero, il prossimo gradino lungo la Scala di Giacobbe, volendo.

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Ci sono gradi di nichilismo molto, molto più onesti e radicali.

 

Scevri del tutto anche di quel titanismo napoleonico che serpeggia sempre nel pensiero francese, anche esistenzialista.

 

Vero. Concordo con tutto il tuo post. Non reputo cmq un male avere delle aspettative nei confronti dell'umanità, almeno in età giovanile. Crescendo certamente si abbandonano un po' queste pretese... infatti dovrei rileggermi Moravia ora, e vedere se riesco ad aprezzarlo più di Céline e Camus, due miei miti giovanili nei primi anni universitari.

 

Per quanto concerne l'evoluzione della coscienza umana, ci sarebbe troppo da dire. Forse l'essenza di ciò che pensavo da adolescente è stata scritta da Clarke nel suo Childhood's End: l'umanità è prevalentemente animale e può evolversi soltanto se guidata da degli esseri superiori benevoli e pazienti. Questa evoluzione tuttavia potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio, in quanto priverebbe l'uomo del suo ego, trasformandolo in una sorta di coscienza collettiva. Però questo approccio è troppo fantascientifico e finalistico. Volendo essere razionali, la massima evoluzione della coscienza l'abbiamo già avuta in uomini come Lao Tze (il Taoismo per me è una delle forme più avanzate di pensiero religioso, e ciò prova che non necessariamente adesso siamo più spiritualmente evoluti del passato), il vero Cristo (quello uomo, non quello idealizzato e istituzionalizzato dalla Chiesa) e così via. E l'evoluzione non ha alcun fine, pertanto potremmo rimanere così fino alla fine dei nostri giorni o, ancora peggio, ritornare ad essere dei vermi striscianti, che soddisfano meccanicamente le loro pulsioni senza farsi troppe domande (la strada che stiamo percorrendo imho è questa).

 

A parer mio lo sviluppo della coscienza nasce da un lavoro su sé stessi ed è raggiungibile soltanto da poche persone. Se aumentano i numeri, entrano in gioco le leggi della statistica, contando anche il fatto che alla natura non interessa molto la coscienza - almeno, gli interessa in minima parte in quanto ne ha permesso lo sviluppo con le sue leggi, ma un eccesso di coscienza su larga scala imho non sarebbe tollerato -, l'importante per lei è il perpetuarsi delle specie organiche sulla Terra.

Modificato da AkiraSakura
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Suppongo che il fulcro sia riuscire ad avere appercezione del sé senza bisogno dello sguardo dell'altro (Sartre).

Altrimenti, è solo giocare a pelota col proprio ego. Che è appunto il teatro dell'oggidì.

Modificato da Shito
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  • 1 month later...

Ho finito di leggere "La società Giapponese" della Nakane. Molte cose le sapevo, tuttavia certi particolari sulla struttura dei gruppi e sull'interazione tra i loro membri sono stati preziosi. Inoltre, leggere questo libro durante un rewatch di Shinsekai Yori è stato doppiamente costruttivo per me.

 

Domani inizierò "Il Crisantemo e la Spada" della Benedict. Ne ho sentite di tutti i colori su questo libro. C'è chi dice che è razzista e obsoleto (tipo Pellitteri), che è un facepalm clamoroso sulla yamatologia, oppure, al contrario, che è un capolavoro imprescindibile e ancora oggi brillante... boh. 

 

Voi che ne pensate?

Modificato da AkiraSakura
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E' un capolavoro ancora oggi brillante.

 

Si vede che è scritto da una donna, e una donna intelligente, e intelligente in modo femminile.

 

Quel libro ha un'onestà, ha genuinità e un coraggio da far impallidire l'accademia tutta (infatti).

 

Oh, lavoro col Giappone e con persone giapponesi da quanto? Boh, tipo venticinque anni. E non sono riuscito a pensarla in altro modo.

Modificato da Shito
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Quel "tipo trent'anni" non mi ha fatto storcere il naso, personalmente parlando. Forse perche' inconsciamente m'immagino Shito come un nobile ottocentesco di una certa eta'. E' anche questo il bello di internet, il poter fantasticare sulle persone che stanno al di la' dello schermo, senza che il loro corpo faccia da intermediario nella comunicazione.

 

Cmq grazie per la risposta Shito, lo sto trovando molto interessante come libro (per me l'opinione di un Pellitteri a caso su uno studio sui giappi vale molto, ma molto di meno della tua).

Modificato da AkiraSakura
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Cioè lavori coi giapponesi da quando avevi 10 anni? :giggle:

 

Che scemo che sono. Ho contato male. avevo pensato 'dai 15-16 (quando iniziai a collaborare con Granata Press), e invece di calcolare 25 ho calcolato 30.

 

Grazie della correzione, Alex. :-)

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