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Weltschmerz

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  1. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Beh, non capisco davvero di quale autorità nei miei confronti tu ti senta investito per arrivare a sentenziare queste cose sul mio conto, se delle mie circostanze non conosci assolutamente nulla. Comunque di nuovo: sembra che non mi renda comprensibile. Non credo di aver negato la sofferenza della protagonista, né di aver scritto che sia infantile empatizzare con questa. Infantile (nel senso etimologico di "proprio del bambino", perché questo tipicamente non ha ancora consapevolezza delle cose spiacevoli) penso sia semmai una forma mentis che non presuppone la sofferenza come elemento integrante dell'esperienza umana, o che proprio pretende non debba esserci. E, come ha sintetizzato Shito, questa è appunto la posizione di Joy finché non matura e capisce che la sua iperprotettività è controproducente per Riley, perché Sadness le è necessaria per affrontare funzionalmente le questioni della vita. L'assunto del film, che penso sia il fulcro con cui lo spettatore è chiamato a confrontarsi, è quindi che bisogna accogliere il dolore e non rifuggirlo, perché parte costitutiva del vivere. E a me personalmente è parso risaputo, anche se non per questo meno valido. Infatti da me questo film avrà sempre un plauso per il suo essere in controtendenza rispetto all'ideale di edonismo dilagante nella cultura di massa. Ma personalmente non posso trovare epifanico un contenuto simile: mi è già tutto noto per apprendimento esperienziale (come si suppone debba essere per chiunque, essendo, come dicevi tu, la sofferenza un fattore universalmente condiviso). Infatti quel che concludevo nel vecchio messaggio che sei andato a ripescare mi pare fosse: a me (al netto dell'apprezzamento formale e contenutistico) non ha apportato nulla, ma un preadolescente potrebbe trarne una lezione utile. Ho quindi pensato che, essendo io un uomo adulto (anagraficamente, che implica abbia vissuto a sufficienza da provare sofferenza) e in virtù del fatto che esperire la sofferenza sia prerogativa di tutta l'umanità (come tu stesso dici), questo principio dovesse tendenzialmente essere applicabile a qualsiasi altro uomo adulto. L'indirizzo che hai riportato mi sembra autorevole solo per dimostrare che oggi pare sia di moda citare patologie a sproposito. Il problema di Riley mi pare del tutto afferente dei fattori endogeni che risultano inadeguati alle sue aspettative (dissonanza tra realtà ideale e realtà percepita). Cioè fondamentalmente sta apprendendo che la realtà esterna non risponde sempre ai suoi desideri e che bisogna accettare dei compromessi per vivere (il che provoca quella frustrazione a cui lei non sa reagire se non schermandosi in se stessa: comportamento disadattivo di cui lei è diretta responsabile, perché si rifiuta di affrontare la situazione). A suo modo è un lutto, certo, e lei lo supera pienamente nel finale. Come è fisiologico, ripeto: non ci sono deragliamenti, procede tutto molto ordinariamente. Del resto, a prescindere da come lo percepisca, il suo è un dramma tutto sommato piuttosto relativo: resta comunque sempre sotto la tutela di due genitori amorevoli che la sostengono (che penso sia tutt'altro che scontato). Mi sembra una visione molto accademica della narrativa: secondo quest'ottica quella di Zodiac di Fincher (tanto per citare il primo esempio che mi sovviene: non sono un appassionato del genere) sarebbe aprioristicamente una storia non interessante perché inconcludente. Credo che si dovrebbe guardare al contenuto, più che alla forma. E, come dicevo, a prescindere dalla forma (abbastanza compiuta in Inside Out, non l'ho mai messo in dubbio), ciò che lo spettatore ricava dalla visione del film è il ritratto rassicurante di un dramma dall'esito positivo. Che di per sé non è un problema, ma è un apologo che descrive la situazione ottimale da vivere nella realtà (la quale conta casi di difficile risoluzione), e non così spesso è quella che si incontra nella vita delle persone (non so tu, ma io ne ho conosciuti diversi di ragazzi e ragazze dall'infanzia problematica mai veramente superata).
  2. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Probabilmente non mi sono fatto capire allora: intendevo che, di fatto, a prescindere dalla forma utilizzata, lo scioglimento della fabula ha una risoluzione positiva. È questo che dico abbia una connotazione consolatoria. Avrebbe anche potuto essere negativa ed essere comunque conforme alle convenzioni narrative del cinema statunitense.
  3. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Non credo tuttavia che le convenzioni impediscano di chiudere con un esito tragico.
  4. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Questa è una fallacia logica chiamata falsa dicotomia. Quello che sorprende realmente è come la gente insista che un film sia o per bambini o per adulti, in maniera esclusiva. Guarda: devo essermi spiegato male. Non intendevo che il film fosse esclusivamente rivolto a un pubblico infantile in senso anagrafico, ma che il suo contenuto fosse più appropriato ed efficace per delle persone psichicamente immature che non per degli adulti (di nuovo: non solo anagraficamente). Perché si presuppone che questi ultimi un percorso di crescita come quello descritto nel film lo abbiano già metabolizzato a sufficienza da dare per scontati i suoi assunti. Ma d'altronde, che in quest'epoca ci sia un ritardo nella maturazione (emotiva e intellettuale) delle persone penso sia assodato. Da cui l'equivoco: sì, il film può risuonare anche negli adulti, ma non tanto perché sia contenutisticamente o esteticamente predisposto a tal fine, bensì per una loro carenza emotiva o intellettuale che li avvicina al pubblico infantile. Tutto ciò secondo la mia opinabile e insignificante opinione. A parte che dello stato psichico di Riley nel corso del film si può ampiamente discutere (nella trama non viene mai diagnosticata alcuna depressione, né il decorso del suo malessere pare tanto consistente da lasciarla supporre: io personalmente ho percepito tutto come una reazione fisiologica alle prime esperienze di perdita e cambiamento, dunque nulla di patologico), forse ti è sfuggito che nel finale tutto si risolve. Io mi riferivo invece a quelle situazioni in cui, per mancanza di resilienza o supporto esterno, non se ne viene a capo: si rimane emotivamente incapaci di far fronte alla situazione, magari abbandonandosi a strumenti di evasione vari. È innegabile che Inside Out sia quanto mai consolatorio sotto questo profilo.
  5. Chiedo scusa se mi concentro ancora su questo punto, abbi pazienza. Il fatto è che se per Yukino e Asuka il soddisfacimento del requisito per sentirsi degne di esistere è dato dal riscontro di un effettivo consenso esterno (cioè dalla consapevolezza tangibile dell'approvazione altrui), per Soichirou ho avuto l'impressione si trattasse di un processo assolutamente autoreferenziale: è lui stesso in coscienza sua a determinare se incontra o meno certe aspettative, desunte dall'introiezione del suo contesto. Dei riscontri esterni in realtà mi ha dato l'idea che fosse disinteressato: quelli sono successi incidentali (ad es. non è intimamente entusiasta della popolarità con le ragazze dell'istituto, del rendimento scolastico, ecc.). Cioè: non è conseguentemente a quelli che lui si sente soddisfatto di sé. Sono solo effetti laterali al suo agire eticamente. Insomma, a motivarlo è la consapevolezza di agire secondo un criterio che lui ritiene corretto, non è che ottenga il banale rinforzo positivo dopo aver ricevuto un feedback al suo comportamento. La sua coscienza non è così circoscritta al semplice piano fenomenico. Mi scuso se non ho apportato nulla di nuovo al discorso, è che credo si tratti di una differenza sostanziale: se Yukino e Asuka hanno dei parametri esterni (fattuali) per misurare concretamente la loro, diciamo rettitudine (eterodiretta), per Soichirou invece l'unico riferimento è se stesso. Il che comporta che se le prime due hanno un margine di miglioramento dato dalla dialettica con la loro realtà circostante, per Soichirou non è così. Lui è solo con se stesso. Ma a questo punto non so più dove finisca il contenuto effettivo dell'opera della Tsuda e dove comincia la mia interpretazione. Perché Yukino non è così intelligente. Persino Kano, da bambina, le spiega dinamiche che lei da sola non capisce. ^^; Quindi, siccome Arima recita bene, lei non capisce. Non capisce i suoi silenzi, spesso non li nota neppure. Quando, prima della crisi finale, lei si rende conto che no, Arima ha sempre continuato a recitare, ne ha uno shock. E' torda, capisci? Non è mica Asaba. Ma il suo essere realmente ingenua, genuina... viene dal serbatoio di amore e felicità che lei ha. E' anche il suo potenziale. In realtà quel che ho trovato un po' stonato non è che lei non intuisse la situazione, ma che la discrepanza tra i loro stili di vita non creasse per lei un fisiologico senso di distacco. Perché fintantoché due persone percepiscono una consonanza esperienziale, intellettuale, circostanziale, ecc. non è complicato trovarsi reciprocamente desiderabili. E non mi riferisco a nulla di cosciente: semplicemente si tratta di rivolgersi a quel che provoca piacere immediato. D'altronde Yukino è, come hai sottolineato, molto epidermica, pratica. Ma dal momento che cominciano lui a razionalizzare il rapporto e lei a coltivare amicizie, interessi, ecc. si forma una frattura di incomunicabilità. Non solo verbale, ma proprio empatica, esistenziale. Per fare fronte a una condizione simile serve un grado di determinazione che forse va un po' oltre l'atteggiamento tutto sommato fatuo di Yukino. Comunque riguardo il leggere il manga, ci penserò. Intanto ti ringrazio per l'attenzione nonostante la parzialità dei commenti. : )
  6. Ringrazio entrambi per l'apprezzamento. Dei genitori adottivi di Arima non ricordo granché, perché mi pare nella serie la loro presenza fosse piuttosto marginale. Mi sembra però che se ne potesse dedurre che Arima percepisse il loro sostegno più come una cortesia circostanziale che non come un gesto intimamente sentito: come se si reputassero in dovere di rendergli un indennizzo per le sue sventure. È perciò che dicevo che mi pare sia solo da Miyazawa che Arima si sente amato senza condizioni. Per lei è sufficiente che lui esista com'è. Coi genitori è diverso: si sente investito del carico delle loro aspettative (reali o presunte). Quindi deve dimostrarsi meritevole della fiducia riposta in lui. Anche se poi è comunque in agguato la sensazione di non esserlo mai, qualsiasi cosa faccia. Perciò Miyazawa è salvifica: per lei Arima è intrinsecamente meritevole del suo affetto. Senza condizioni, appunto. Come per una madre biologica. Perché Arima tende a identificare il suo diritto di esistere nel compiacimento del suo prossimo, tanto da annullare la sua volontà. È una sorta di ricatto morale a cui si sente soggetto ad arbitrio (nel senso che parte tutto da lui: non sono gli altri a fargli richieste esplicite). Credo sia una condizione singolare per un giapponese: è un processo da cultura della colpa, in cui l'individuo si rimette alla sua proiezione interiore del giudizio altrui (il Super-io) per valutare se stesso. Ma con Miyazawa questa tensione scompare perché il rapporto è già bastante senza che lui si debba spingere oltre la semplice espressione di se stesso. Però magari nel manga il rapporto di Arima con la famiglia adottiva è differente. Io ho visto solo come è reso nell'anime. Comunque ricordo di aver trovato pericolosa quella dipendenza di Arima per Miyazawa, perché implica un'instabilità latente, le cui condizioni di contenimento eventualmente avrebbero potuto spingersi oltre il solo richiedere la presenza di lei. Insomma mi pareva che Arima volesse giustificare se stesso delegando al rapporto con lei il termine per definirsi autorizzato a esistere. Ma non mi pare un procedimento solido: prima o poi bisogna autolegittimarsi. E di Miyazawa non mi sono mai veramente spiegato cosa le rendesse amabile Arima: un tipo sereno solo superficialmente ma angosciato nell'intimo, e in ultima analisi abbastanza esanime, mi chiedevo come potesse non percepirlo come un peso per lei, che invece è tanto esuberante e vitale. Mi sembra che a un certo punto anche lo stesso Arima se ne rendesse conto: mentre lei è una persona serena che prosegue lungo il suo percorso di sani autorealizzazione e sviluppo, arricchendo di volta in volta il suo carattere, sostanzialmente cambiando di continuo, lui resta fatalmente inerte nella sua dipendenza. Arima è per Miyazawa come un organismo simbiotico che non ha margine di crescita autonoma. E pure nutrendosi delle energie trasmessegli da lei, riesce semplicemente a sostentarsi senza progresso ulteriore. Ecco, come lei non si sentisse soffocare da questa dinamica a un certo punto ho cominciato a trovarlo piuttosto inverosimile. Perché per me era evidente che si creava un divario esistenziale sempre più consistente tra i due. Ma immagino sia perciò che si tratta di uno shoujo, dopotutto: è una fantasia adolescenziale. Però forse atipico, sì: fatto di vita quotidiana di persone tutto sommato piuttosto dimesse (i due protagonisti, intendo) e non di queste grandi vicissitudini a sfondo sentimentale (il contesto è per lo più la scuola: mi pare non ci fossero vacanze esotiche, escursioni fuoriporta, ecc.). Il percorso dei personaggi è soprattutto interiore, gli eventi contingenti sono risolti di solito con una certa sollecitudine per poi mostrare le reazioni emotive dei protagonisti. Si vede che alla Tsuda interessasse descrivere le dinamiche relazionali, piuttosto che i tipici tiremmolla infantili che mi pare siano un po' il marchio del genere. Ripeto comunque che queste impressioni si basano su ricordi più che decennali, ed è molto probabile che ci si sia fatta strada qualche sovrainterpretazione. E poi la mia conoscenza degli sviluppi è quanto mai parziale perché tiene conto della sola serie, motivo per cui forse gli interrogativi che mi pongo vengono chiariti nelle parti del manga che non conosco. Spero quindi di non aver scritto troppe ovvietà o inesattezze per chi l'ha letto tutto. Nel caso mi scuso ancora. In effetti, non conoscendo l'opera nella sua interezza non dovrei esprimermi, ma mi sentivo di condividere queste considerazioni. Comunque mi farebbe piacere sapere se questi conflitti (ammesso non siano un parto della mia immaginazione) vengono risolti in seguito. P.S.: Volevo dire qualcosa anche sulla produzione della serie. Sebbene i vezzi autoriali di Anno tocchino forse in Kare Kano un compiacimento manieristico, ricordo che all'epoca della visione ero rimasto meravigliato dalla raffinatezza della sua regia. Non intendo la sola composizione delle inquadrature (il cui merito forse è solo della Tsuda), ma proprio il montaggio, con i tempi, le musiche, ecc. Ho trovato che le atmosfere evocate da Anno fossero davvero intense: le immagini rarefatte su dettagli degli ambienti o dei personaggi, i delicati brani di Sagisu Shirou oppure i frequenti prestiti dal repertorio classico (i soliti Bach, Haydn, Borodin, Debussy). Tutto pare trasudare personalità, partecipazione, interesse per ciò che si sta facendo. Si tratta di un'estetica che esprime la sensibiltà dell'autore, e quella di Anno (e dei suoi collaboratori) è discreta, elegante, intelligente. Raramente una produzione animata mi ha colpito allo stesso modo, negli anni successivi.
  7. Sulla corriva conclusione della serie Yamaga si è espresso brevemente in questa intervista, dicendo che l'autrice avrebbe disapprovato la prevalenza degli aspetti comici a scapito di quelli sentimentali e che la sua contrarietà sarebbe stata il motivo dell'abbandono della serie. Da questa dichiarazione si potrebbe dedurre che forse alla Gainax fossero a disagio nell'adattare un'opera preesistente (Kare Kano mi pare fosse il loro primo soggetto non originale), e che quindi non avessero neppure molta lena di continuare. Comunque, io ho avuto la fortuna di aver visto per la prima volta l'anime che ero ancora adolescente. Dico così perché all'epoca ho potuto apprezzarlo in virtù del fatto che ero chiaramente predisposto a immedesimarmi nei protagonisti, e poi perché subivo un po' il fascino di quei racconti che mi apparissero sufficientemente romanzeschi (e Kare Kano rientrava tra questi, nonostante tutto sommato le situazioni che descrive credo si possano dire col senno di poi alquanto ordinarie). Lo rivedessi oggi probabilmente lo troverei un pochino vano. Ma è fisiologico, penso. Della serie ho trovato notevole la cura nella descrizione dell'abisso interiore di Arima e della sua vertigine nello scoprirsi sinceramente amato per la prima volta nella vita. Come dice Shito, Miyazawa è un personaggio davvero ordinario, e per questo forse poco interessante perché piuttosto ovvio, senza reali conflitti: la vita per lei è un percorso inconsapevole, abbastanza lineare, con tutte le esperienze che è consuetudine incontrare nella crescita. Ma per Arima no: per lui esistere è un continuo interrogarsi sulla legittimità del proprio essere al mondo e del ricevere le attenzioni che gli sono rivolte. Immagino sia naturale sentirsi così quando si è avuto un vissuto di figlio non desiderato. Ho empatizzato molto con questo, perché quei ceffoni immotivati che lui rivede simbolicamente quando sente di avere ottenuto qualcosa che non merita li ho ricevuti anch'io. Avere un'infanzia simile induce a credere di non essere meritevoli di niente, e quindi a sentirsi in colpa a priori verso qualsiasi atto di gentilezza nei propri confronti. Perché non si è fatto nulla per giustificarlo. Perché quando la percezione intima dell'altro nell'ambiente domestico è definita da vessazioni e turpiloquio ai propri danni, non ci si aspetta assolutamente che qualcuno esuli da questo trattamento. Lo si assurge a paradigma (come ricordava Anno altrove: "mother is the first other"). Perfino ci si convince che lo si merita perché responsabili di una colpa imperscrutabile. Si comicia a credere che la propria sola presenza sia molesta per gli altri. Si può immaginare la meraviglia, allora, nel riscontrare un comportamento non solo non ostile, ma addirittura amorevole. A quel punto qualcosa non torna davvero. Chiedo scusa se ci sono inesattezze nel mio commento all'opera, ma ho visto solo la serie ed è stato davvero tanti anni fa, e la percezione ricevuta può essere sia stata distorta dalla proiezione del mio personale retroterra esperienziale.
  8. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Grazie per il benvenuto Erik. Beh sì, come mi pare sia già stato scritto da qualcuno, per la questione delle leggi di mercato (e quindi l'ampliamento del bacino di pubblico perché il fine è comunque l'introito, se ho capito cosa vuoi dire) sono stati inseriti dei siparietti un po' più audaci (come quello del ricordo del sudamericano nella psiche della madre), ma mi sembra si tratti per lo più di elementi marginali. Non credo si possa trascurare il fatto che la protagonista, che convenzionalmente rappresenta il personaggio con cui lo spettatore deve identificarsi, è una prepubere. Questo penso implicitamente già fissi un'età di fruizione ideale (cioè a cui gli autori avevano immaginato di rivolgersi), per quanto ovviamente non nega la possibilità che possano esserci eccezioni. Questo passaggio non mi è molto chiaro. Cioè non ho capito quale pensi che sia la ragion d'essere del film. Scusami se l'hai già scritto, nel caso vado a rileggere. Comunque sottolineo che non parlavo di pedagogia in senso stretto, sarebbe piuttosto ingenuo pensare che si faccia cinema solo per educare il prossimo. Credo sia un'intenzione latente però, alla Pixar, in questo caso data probabilmente dalla tensione genitoriale e relativa sollecitazione alla responsabilità che Docter e altri sentono su loro stessi.
  9. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Sì, questo genere di film americani ovviamente è per lo più confezionato nella tradizionale struttura restaurativa in tre atti (non saprei determinare di volta in volta quanto pedissequamente rispetto allo schema canonico, però grossomodo riconosco la procedura). Diciamo che a me piace soffermarmi a osservare il modo in cui si organizza il materiale narrativo, ma questa è mia una deformazione. Primariamente ho trovato l'idea di per sé piuttosto meritoria (penso che qualsiasi proposito di educare il proprio pubblico lo sia), ma non credo avrebbe avuto la medesima efficacia senza un'impalcatura formale corretta e funzionale, che però concordo essere abbastanza, come dire, consueta per gli sceneggiatori americani (anche se, per fare un esempio analogo, Frozen mi era parso un delirio sotto questo aspetto). Aggiungo un'altra cosa: è evidente che Docter e gli altri autori si siano documentati sulla questione della classificazione delle emozioni (pare abbiano consultato appositamente uno specialista piuttosto autorevole in materia). Ho apprezzato molto anche questa cura che hanno avuto, che dimostra che da parte loro c'è comunque un sincero interesse verso ciò che fanno.
  10. Weltschmerz

    Inside Out - il film Pixar del 2015

    Premetto che questo intervento non ha alcuna intenzione provocatoria e mi auguro non infastidisca nessuno. Vi prego di essere indulgenti nel caso in cui qualche mia parola offenda chicchessia: non è voluto! Ho pensato di scrivere questa risposta perché mi ha davvero sorpreso notare con quanta insistenza si sia sostenuto che questo film non sia rivolto prioritariamente a un pubblico infantile. È una cosa che mi ha molto incuriosito e allora volevo condividere le mie personali impressioni. Perché la sensazione che ho avuto nel guardare il film è stata sì quella di assistere a un'opera che si prefiggesse di trattare un argomento serioso (d'altronde un prodotto per l'infanzia non deve certo riguardare fesserie), ma con l'intento di educare, di accompagnare lo spettatore nella scoperta di questa questione. Di guidarlo amorevolmente, insomma, indicandogli una soluzione edificante. Il film non propone degli interrogativi che vengano lasciati irrisolti (espediente di disturbo perché insinua l'angoscia del dubbio), non mostra ambiguità; è al contrario molto compiuto nel sollevare un problema per poi trovargli un opportuno esito apologico nell'epilogo. E questo mi pare un procedimento tipico della narrativa per l'infanzia, o almeno, di quelli che ne sono i migliori esempi (quelli cioè pedagogici). Infatti la sceneggiatura è di uno schematismo che direi estremo, tanto che avevo anticipato lo scioglimento approssimativamente da metà pellicola (e non perché sia un genio, beninteso, ma proprio per via di questa rigidità narrativa, che lasciava supporre un numero piuttosto ristretto di possibili conclusioni). Mi è parso evidente che la struttura narrativa fosse fortemente, diciamo, apollinea (in senso nietzschiano): alla fine tutti gli elementi del racconto collimano perfettamente per risolversi in positività. Senza aloni di irrequietezza. Ogni componente perturbante è sistematicamente fugata. È tutto ordinato secondo logica, estremamente chiaro, intelligibile e, soprattutto, univoco. Perché il film si propone di istruire su come accettare lo sconforto sia utile per la crescita emotiva. E questo è un messaggio esclusivamente propositivo, che non contempla le eventualità in cui invece si possa fallire, ci si possa deprimere o ci si possa sottrarre alla crescita, che sono tutte circostanze verosimili. Ma ovviamente tale casistica stride con il fine a cui il film deve assolvere, che è affermativo. Ecco, lo direi un prodotto rivolto all'infanzia perché propone una visione oltremodo parziale della realtà, convenientemente scelta per infondere ottimismo nello spettatore e motivarlo per le sue circostanze e il suo avvenire. E mi sembra perfettamente funzionale. Ma è, come dire, un prodotto preconfezionato secondo dei canoni di amabile innocuità. Un'opera destinata a un pubblico adulto credo non si contenga entro simili limiti intellettuali, rivolgendosi piuttosto alla natura assurda del vivere umano - e quindi alle sue ambivalenze, alle incertezze, alle malinconie - senza offrire il conforto un po' affettato di una risoluzione lineare dei conflitti. Mi è venuto da pensare che forse nel ritiene che dei bambini non possano capire il film si fa confusione tra il lucido riconoscimento degli elementi di un impianto narrativo e la loro comprensione sensoriale, diciamo intuitiva. Mi spiego: ovviamente è impensabile che un bambino si avveda dei meccanismi formali attraverso cui viene espresso il contenuto della trama (ad esempio: non credo che possa rendersi conto di come l'assunto di base si fondi sul concetto accademico che nella psiche umana siano identificabili delle emozioni primarie, cioè elementari e universalmente condivise, ed emozioni secondarie, cioè complesse e diverse a seconda della cultura d'appartenenza e del vissuto personale). Ma questo genere di comprensione analitica non eslcude l'efficacia del racconto: non è necessario conoscere il trucco di un prestigiatore perché il suo numero desti un'impressione. Insomma, è naturale che un bambino non sappia spiegare razionalmente i motivi per cui questo film gli sia piaciuto. La sua è un'esperienza introiettiva, in cui assimila ciò di cui esperisce in maniera inconsapevole, quasi subliminale (ma sarà comunque arricchito nella conoscenza sensibile e, nei momenti opportuni, potrà tornare inconsciamente ad attingervi per trarne beneficio). Dopotutto, in effetti, allo sguardo di un adulto gli artifici della forma appaiono fin troppo scoperti. Personalmente ho ammirato la compiutezza narrativa del film, ma ho costantemente percepito un fondamentale distacco perché non mi sembrava certo di essere io il fruitore ideale dell'opera. Voglio dire: quel processo di identificazione per cui si proietta sé stessi nei personaggi di una vicenda, intendendo i suoi sentimenti come propri, non ha ovviamente avuto luogo. Al termine della visione mi sono sentito anche alquanto in imbarazzo, perché che questo film lo vedessi io era davvero inutile. Nel senso che su di me non ha ovviamente sortito alcun effetto, avendo io avuto già quel percorso formativo che viene descritto. Un bambino, invece, può apprendere molto. Forse l'equivoco deriva dal fatto che si suole dare una connotazione deteriore o spregiativa a ciò che è inteso per l'infanzia, non so. Immagino che si potrebbe dire allora che il film si rivolge a un pubblico che non abbia ancora intrapreso un determinato sviluppo della dimensione emotiva, ed è più comune che tra queste persone ci siano dei bambini. Ma è una scappatoia, perché raggiunta l'età adulta si presuppone questo sviluppo abbia già avuto luogo. E, se così non è, mala tempora currunt. Comunque, al netto di queste mie considerazioni, per dedurre quale sia il bacino di pubblico a cui il film si rivolge immagino sia sufficientemente eloquente pensare che, per il soggetto, pare che Docter si sia in parte ispirato a un episodio autobiografico: da ragazzino si è dovuto trasferire coi genitori in Danimarca e sembra che non riuscisse a integrarsi granché col nuovo ambiente, ritraendosi in sé stesso. Poi, avendo recentemente osservato un comportamento simile nella figlia preadolescente ha avuto l'idea per il film. Concludendo, mi scuso anticipatamente se il mio modo i esprimermi può sembrare artificioso, sussiegoso, antipatico o altro, la mia intenzione era solo condividere questi pensieri. Mi scuso inoltre se alcuni passaggi risulteranno nebulosi o apparenti nonsensi. Nel caso se ne può discutere.
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